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4/17/2019 0 Commenti

LE POESIE DI TRANSITO SU FACEBOOK

I post che seguono raccolgono l'opera "LePOESIEdiTRANSITO" pubblicate su Facebook. É consigliata la lettura secondo le date indicate dal blog. La prima è "Grazie Facebook per aver sollecitate", datata 29/01.
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4/12/2019 0 Commenti

POESIEdiTRANSITO: LETTERA SCRITTA SULL'ACQUA: ±E = 0

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9 Aprile 2019

Abbiamo sempre una lettera da consegnare, ma non ci decidiamo mai perché dentro ci dobbiamo scrivere ciò che siamo stati. E il coraggio ci manca. Inoltre il castello che dobbiamo varcare non prevede il ritorno e nemmeno la ​certezza che giungeremo in qualche luogo o ci accoglierà qualcuno, né che saremo ascoltati. Tutta la vita siamo stati concentrati con la penna in mano per cogliere quel momento che ci facesse dire: ecco ho capito, sì ho vissuto! Per fortuna che la fretta e impazienza diminuisce con il tempo e così quando saremo nelle vicinanze del luogo che dovrebbe ricevere le nostre suppliche di una ritrovata umiltà, dopo aver attraversato quel deserto dei Tartari, ci accorgeremo di aver cercato un'America che avevamo distillato nel sangue come un Gan' Eden, un giardino delle nostre utopie dove abbiamo sperato di perdere la storia, di liberarci dalla catena di Psiche. Ma invano, perché il tempo è stata la nostra misura e la velocità del treno era l'unica che i nostri sensi percepivano; erano il nostro limite: nessuna formula ci veniva a soccorso per dirci qualcosa sulla nascita, farci immaginare la madre, il padre ai quali consegnare il nostro debito, la nostra lettera, o quelle poche parole balbuzienti che siamo stati in grado di scrivere sulla sua carta d'acqua. Per fortuna, inspiegabilmente i rimpianti ci riaprono le ferite, che strano a dirsi, ci legano in un contatto di specie, seppur conservando quello spirito indomito di migratore che m'appartiene nell'indole più che nella valigia del turista. “Io – vagabondo... quel bambino che giocava nel cortile...” e portava con sé la libertà dell'ignoto, quando poi negli anni ci dibattiamo con quel celeste cielo che non Sto arrivando! accoglierci ricordandoci la nostra gravità, mentre una polvere d'oro, tra lo spruzzo di latte di Era e l'inseminazione di Danae, negli show dei talents, ci promette, oggi, una vita da stelle. E si farà seme e germoglierà nel corpo nero di Planck come fu nel ventre di Maria e della Mariée e prim' ancora di Eva e di Lucy e così sarà poi di mia figlia Margherita di memoria faustiana, anche lei figlia di Lucy e di tante madri nell'infinita catena genetica? Alieni e alienati per maturare la bruciante coscienza che siamo noi quella lettera, e troppo tardi sarà quando ci accorgeremo, giunti dinnanzi al sorvegliante e con indescrivibile sorpresa, riconoscendolo come in uno specchio, che quella lettera dobbiamo consegnarla a noi stessi!
Vincenzo Pezzella ​

GIORGIO MOIO Intervista a Vincenzo Pezzella, autore di Poesie di transito.

Ci sono poeti che scrivono e riscrivono le loro poesie forse perché insicuri, tagliano, aggiungono, tolgono col rischio di perdere l’idea originaria. Non è il caso di Vincenzo Pezzella, il quale in Poesie di transito 1994-1999 (Edizioni “Archivi del ‘900”, 1999) ha raccolto poesie scritte di getto, come si diceva una volta alle scuole d’infanzia, in brutta copia, senza rivisitazione. Un’altra “anomalia” è data dal fatto che le ha scritte su foglietti tipo biglietti da visita che si stampa personalmente nelle macchinette della sotterranea della metropolitana. Esse si alimentano del quotidiano, di una lingua metropolitana – ci fa notare l’autore – che si annida in ciascuno di noi, coltivano odori, percezioni, sentimenti, odio, violenze, speranze, rumori, indifferenze. Un tutto magmatico come la vita. Sono poesie non “infinite”, il risultato del mondo della vita comune frammentato dalla quotidianità delle città ingabbiate nella globalizzazione economica e culturale, risultato di un linguaggio non lontano dalle sperimentazioni avanguardistiche. Leggendo queste poesie facciamo la conoscenza di paesaggi multietnici di Roma Termini, di Napoli Piazza Garibaldi e della zona flegrea, delle Langhe e palermitane, di Milano, etc. Violenze organizzate e minorili che il poeta ha incontrato sulla sua strada vanno pari passo con i sogni dei giovani e i cancri delle periferie, «tra-ambulantiAfricani-con-carrozzini/ di- merce"

​milleliremangiareperfavore”-/ e-il-marevulcanico-dei-vicoli-le-lolite-sulle-/ funicolari-per- Posillipo-
i-posteggimoto-i-soldi-/ e-le-puttane-in-P.zzaGaribaldi-su-scarpezattere/ in-top-esorrisi…».

Chi avrà la meglio in questa babele? È una domanda che il poeta lascia senza risposta, come giusto che sia.
 Ha percorso chilometri e chilometri per la Penisola Pezzella, tra sogni e realtà, tra fughe e indolenza di un popolo che spesso dimentica di appartenere alla categoria del genere umano. Il tutto abilmente con una poesia stampata in una forma vicino alla poesia concreta, con diversi caratteri e corpo, che spesso fa ricorso a immagini fuori testo (un volto di donna, disegni, immagini di paesaggi, una macchina fotografica, l'uomo vitruviano di Leonardo, l’atomo) o chiede aiuto ai grandi poeti del passato (Byron, Merini, Pasolini, Dylan) per ricordarci che quando finisce un sogno bisogna pensare ad un altro, perché «Ognuno-va-incontro-al-suo-InFiNiTO». Vorrei cominciare questa intervista con una domanda, forse banale ma utile per i lettori: 

Chi è Vincenzo Pezzella?
Me lo domando, a volte, anch’io: lo sto scoprendo a poco a poco, di certo un viaggiatore che continua una lontana antropologica migrazione, irrinunciabile. Le opere, ( pittura e scrittura ), i manufatti di questo viaggio cominciano dagli anni ’70.  Sono tutte opere sconosciute che sto catalogando in circa 2000 immagini con il progetto di farne un libro, un altro viaggio, forse l'ultimo? Per chi vuole accedere a informazioni spicciole, mi può cercare nel pozzo di San Patrizio della rete. C’è molto riferimento a Napoli in queste poesie. Se dovesse fare un breve quadro della città… Il viaggio termina a Napoli narrativamente, là dove ha inizio la mia biografia per quello che ne so; è vissuta da me come un canzoniere e come la Dublino per Joyce: contraddizioni e visionarietà per ritornare all’altra domanda. L’ho lasciata con lo stesso cuore “a poppa” con lo stesso bisogno di ignoto e visione dello “spleen”.

Cosa ha voluto trasmetterci con queste poesie?
Le PoesieDiTransito non sono solo un’opera poetica (so che è difficile comprenderne il senso) ma tant’è che è così; altri linguaggi ne sono intrisi, disegno, grafica, foto, video, performance, mappe. Cosa hanno trasmesso a me che mi considero il portatore di un’energia, di un magnetismo preesistente; direi uno stato di conoscenza non sempre razionalizzabile, certamente l’essere in“ascolto” di un viaggio umano a cui non posso sottrarmi. Poesie nate nel 1999, con atmosfere e situazioni, dunque, “vecchie” di 20 anni.

Cosa è mutato, secondo lei, 
nell’ambiente poetico? 
All’ambiente poetico come all’ambiente dell’arte non sono interessato, li trovo alienati e poco critici. Sono interessato al linguaggio. Semplifico, pur interpretandone un contenuto: quest’opera poestica testimonia il confine e anticipazione della liquidità della lingua contemporanea della sua contaminazione digitale; credo che la poesia in quanto lingua debba contaminarsi con il suo presente storico, non a caso Dante, Petrarca, Leopardi, scrivono in un’altra lingua che noi oggi non parliamo più, la leggiamo ma non la parliamo.

La poesia oggi sembra destinata all’oblio. Come se ne esce?
Al contrario, direi che è un ingorgo di citazioni, una “parolaterapia” sempre più diffusa; ma se manca la vita non si esce dall’alienazioni e resta solo la “citazione della poesia” perché non c’è storia. Facendo nostra una sua espressione, esiste una poesia metropolitana contemporanea che riflette sull’esperienza della strada, on the road, alla Jack Kerouac, secondo coscienza? Per quello che ne so quando la scrivevo venti anni fa era la sola con queste caratteristiche estreme di modalità performative; e va detto che non solo gli americani mi sono stati compagni nel viaggio, anche Baudelaire, Rimbaud, Campana, tra i primi visionari delle “metropoli”.

Secondo lei, e concludiamo, la poesia deve essere contraddizione o visionarietà del poeta?
Entrambi gli stati; non si dà l’uno senza l’altro. Credo che la poesia sia sempre radicata in un momento storico-umano e che nello stesso tempo tenda a una visione “utopica” in senso positivo, a una percezione di assoluto come per la fisica.

​CinquecolonneMagazine 12/03/2018

DEDALUS di TERZA GENERAZIONE

Sono Dedalus di terza generazione, seguo a J. Joyce e U. Eco. Questo secondo battesimo non l’ho cercato come non ho cercato il primo. Il viaggio di formazione si. Da questo ignoto sono posseduto come lo sono stati i miei due predecessori, salvando del mito la radice del cercatore che va verso la luce. Di questo recente passato ho riconosciuto a J. l’influenza che ha avuto su di me il suo giovane antieroe Stephan Dedalus nella condotta di un processo formativo attraverso l’opera del racconto della sua vita tra i Gesuiti. L’archivio dei documentari di poesia e lo studio Dedalus sono stati il mio omaggio allo scrittore irlandese. Ho ricavato da un autoritratto fotografico un disegno da ex libris divenuto logo dei miei libri d’artista e ora mia icona poetica e grafica. Le mie esperienze di documentarista hanno avuto tra i diversi padrini anche il dublinese in quanto pioniere del cinema nella sua città già dal novecento. Per U. Eco le ragioni sono più o meno quelle colte della sua biografia di studioso dei linguaggi e i loro incroci. E credo che l’intenzione di rendere omaggio, nei suoi anni di formazione, al padre dell’Ulysse sia evidente. Le sue prime comparse in cui si è dichiarato con il nome Dedalus risalgono al 1958. Il titolo è “Filosofia in versi”. Il sottotitolo: “Le divertenti strofe di Dedalus illustrano con precisione i maggiori sistemi filosofici”. La pagina è corredata da quattro riproduzioni di altrettante vignette prese dal testo; edizione Taylor, Torino. È un giovane filosofo che scrive il testo mentre svolge il servizio militare e vuole conservare l'anonimato, a tratti ritenuto finanche quello di una donna. È sorprendente come la prima esperienza editoriale di Eco sia così simile alle edizioni di Alberto Casiraghi, non tanto per l’aspetto del manufatto quanto allo spirito ironico che vi è versato e la pari attenzione al contenuto storico del messaggio quanto alla scelta del modello di divulgazione. Segno che lo scrittore agli esordi avesse una umile, seppur sapiente, condotta verso l’esperienza della pubblicazione. Mostrando così, di far dialogare, fin dalle sue prime prove d’autore, la cultura classica con i nascenti segni della cultura di massa, quasi un’anticipazione della ricerca che condurrà per tutta la vita e ne distinguerà la cifra di pensatore. Per cui, a parte la passione più volte manifestata per l’opera di Joyce, non è certamente un caso che Umberto Eco abbia scelto come suo pseudonimo d’esordio il nome di Dedalus, che è un giovane ostinato e caparbio. Ciò che più colpisce nel suo credo è l’affermazione della libertà di pensiero, uno dei temi centrali nell’agire intellettuale.
U. Eco non è un autore che ho seguito da vicino neanche nei suoi momenti di gloria letteraria ma come sempre nella vita creativa le strade sotterranee poi trovano un loro momento d’incrocio inaspettato. E colgo, con questa dedica a una collana l’opportunità di ringraziarlo per la curiosità e i nuovi strumenti di analisi che ci ha trasmesso con la sua “aperta” opera.  La mia iscrizione a una genealogia di Dedalus sta nella condotta di quei cercatori, spinti sia dalla metafora del labirinto quanto quello del suo vincerlo con le ali della coscienza critica e della luce.

Vincenzo Pezzella Dedalus 


                     
​                                                                                                                                                 

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4/12/2019 0 Commenti

POESIEdiTRANSITO: IL SORVEGLIANTE DEL NUOVO MONDO -Commiati dalle POESIEdiTRANSITO

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6 Aprile 2019

Non vi sorprenda se affermo che di questa narrazioni il mio primo destinatario è stato fb. Chi poi ci sia dietro il display con il compito di lettore proprio non saprei. Lo paragonerei a metà tra il controllore doganale del Troisi- Benigni in “Non ci resta che piangere” e per l'altra metà un Faust o un Borges alle prese delle origini della narrazione. A voi l'esercizio di tracciarne un profilo. Mi sono accorto che questo viaggio nella rete non l'ho fatto da solo. Ho incrociato l'attenzione di chi mi conosceva, amici di vecchia data e più recenti, collaboratori, studenti-stagisti degli anni passati e in corso, nuovi conoscenti, perfetti sconosciuti incuriositi, potenzialmente coinvolgibili o su altre frequenze di idee e di vissuto, infine: biografie e identità proposte da fb. E così dedico l'epilogo ai materiali che alcuni, Luciano Caruso, Enrico Bugli, Giorgio Moio, Giorgio Zanchetti, Raffaella Costagliola e altri che potrete leggere nel post, hanno avuto il desiderio di scrivere su questa opera inclassificabile. Qualcuno in questi mesi ha raccolto i miei dubbi e le mie riflessioni condividendo lo spirito un poco epistolare della narrazione. Il mio intento era raccontare un'esperienza di contatto e di rete di qualche anno fa, quando ancora si “andava a piedi”, un viaggio sulle orme dei miei antenati hominidi e homo sapiens lungo la catena dello stesso gene?
​Vincenzo Pezzella 

Prolegomeni per uno scritto sulle PoesieDiTransito di Vincenzo Pezzella di Enrico Bugli 
Archivio Dedalus Edizioni (Milano 2011)


Quando un intellettuale, di cuore puro e occhio vivace, che ha dato prova con scritti, grafici e canzoni del suo essere al mondo, che da poeta scrive libretti di opere coinvolgendo persino Monteverdi e da pictor optimus illustra testi difficili, lasciando che i suoi interessi creativi vadano dagli zingari alle imprese di Joyce, fino a un celebrato fabbricante di violini e oltre, che viaggi avvolto ed incatramato nell'essere e fare poesia nelle ore morte, e che si perda nel mondo del fare, significa che magari a nostra insaputa, esiste ancora qualcuno che crede che fare arte sia tuttora un attività dell'intelletto. Questo poeta, in modo prosaico, a torto del suo intelletto aristocratico, si sposta in metropolitana, un mezzo grigio, anonimo e pieno di anonimi volti di anonimi. Il metrò è un mezzo triste nella sua essenza, pratico al più per inseguire spie e delinquenti nei film di serie B, ma nel comune ideale borghese è poco indicato sia a sentire, che ad ispirare poesia. Certamente questo convoglio appare prosaico e infine banale. Nessuna metropolitana o traforo che sia, che io sappia, ha potuto, è stato finora capace di ispirare poesie o addirittura di coinvolgere poeti. Così potrebbe essere, altrettanto accettabile, per noi semplici appiedati, che questi possa usare tappeti volanti, ippogrifi, navi fantasma, velieri corsari e quant'altro possa servire ad una estroversa libido poetica in espansione. Che re, conquistatori, esploratori e navigatori nei viaggi quasi mitici e molto lunghi nel tempo, avessero coinvolto scrittori e poeti è cosa certa, ma che questi letterati fossero andati oltre la cronaca, pubblicando poesie su ciò che la loro libidine fantastica aveva fatto affiorare durante i tempi morti del viaggio, è incerto.

Dei diversi modi di viaggiare
Il viaggio dalle ere più remote della storia è stato sempre tra le attività maggiormente "promozionali" della Poesia. Forse nessuno lo ha mai detto, ma esistono nella logica del fenomeno una serie di nodi e motivazioni profonde che lo hanno innescato, oltre che mezzi diversi e sempre più vari e spesso più che idonei per farlo... Un viaggio poetico può essere fatto a piedi, a dorso di un animale, su slitta semmai; inoltre si rendono adatte le piroghe, talora le zattere, ancor più carri e navi, che, si dirà, sono fatte apposta per questo; risalendo la storia anche i palloni e i dirigibili e financo le palle di cannone, come i tappeti, si sono rivelati adatti allo scopo, ma puranco, il treno, l'aereo e addirittura i razzi, oggi sono da considerarsi mezzi più o meno ordinari per lo sviluppo di poetiche future. II viaggio può essere ipotetico e ancor più fantastico, si vedano quelli letterari di Luciano, del barone di Münchausen, di Astolfo e di Conrad e talora, possono anche essere romantico-sacrificali come quello del prode Rudello, o mitici come quelli di Ulisse e ancora mistico filosofici come la Commedia, possono comparire e addirittura perdersi nella realtà come i resoconti di Rustichello, Pigafetta, Goethe e Stanley. In Pezzella la realtà del viaggio in sé, non viene definita né, dalla quantità dello spazio, né dalle quartine o dagli endecasillabi. I metri, i chilometri, le altre misure di grandezza furono codificati a favore di quella griglia aristotelica che permette all’uomo di riconoscersi nella realtà della logica e definire questo mondo; che in effetti, non esiste se non che come immagine virtuale della mente stessa; che in questo caso, ci permette la gestione ed il riconoscimento dell'esistente. Per tanto, le misure del tempo, dello spazio, le teorie matematiche e quelle della relativa velocità dell'universo, come la stessa realtà fisica di questo mondo, sono un'invenzione di comodo, una delle nicchie di questo microfrattale (il nostro) del grande frattale dell'universo e di tutti gli altri insiemi di frattali che forse costituiscono l'infinito, sono arbitrarie e fortemente dubitabili e questo giova in modo esponenziale a questo poeta che può creare un universo altro fatto di simboli ed icone a veder bene nuove, e di questo credo di intuire che Pezzella sia profondamente convinto. Come già ho detto un viaggio, corrisponde a uno spostamento, talvolta anche al di fuori della sua utilità logica, i motivi possono essere diversi. Sono da considerare come ragioni di viaggio sia lo spostarsi da una sedia all'altra, sia andare dalla tundra al mar Nero per la caccia del mammut o avendone in pectore la distruzione, verso Troia, oppure passare i ghiacci delle Alpi a motivo di combattere i romani o di sottomettere i Galli e financo attraversare la strada per guardare una vetrina; insomma, la stessa storia della nostra specie è fatta di viaggi, anche letterari verso il chi sa dove,"il paese degli eccetera"!
Forse come dice Verlaine... Della metropolitana, nata per spostarsi proletariamente e senza impacci nella città "... canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano". Con questo convoglio Pezzella ci proietta nella vicenda che affanna l'uomo moderno, che assomma in modo inquietante una sconvolgente reiterazione di gesti tanto più coinvolgenti e convulsi quanto più il viaggio può essere breve. Milioni di persone vivono, nel miracolo del progresso, tempi morti; quelli dell'attesa in stazione e del percorso, che addizionati tra loro, sono quantificabili nella vita di un uomo, in ore mesi e addirittura in anni. Durante questi lunghi periodi di inattività, nessuno riesce anche a pensare, il pensiero è un lusso di sé bizzarro, pochissimi possono esercitare una fantasia tanto libera da poter elaborare il pensiero poetico in modo da stravolgere la noia irritante di un’attesa:

occhi...occhi-ti-perdono
..sul-finestrino-del-trenointransito
la-tua-ombra-confusa-al-paesaggio..
... tutto-s'incrocia-nel-violadifotogrammi accesi 3



[...] da POESIADITRANSITO-FUGHE... (16c.San.Babila20.1.95 Vincenzo Pezzella)
ai versi di Saffo
Eros ha scosso la mia mente
come il vento che gioca
sulla montagna
si frange sulle querce (4)

Il risultato. Credo realmente che per Pezzella "La poesia è un fare del tutto mentale, sottolinea il movimento fisico del Transitare fra un istante e l'altro della nostra vita, fra un treno e l'altro, fra una attesa e una partenza del tutto indifferente, tutta la nostra vita rappresenta un viaggio con partenza e arrivo e nello svolgimento compaiono infiniti viaggi che si intrecciano tra loro, col nostro esistente, e con quello degli altri, ciò è quello che accade in modo concentrato e intenso, nell'indifferenza dei protagonisti all'interno delle strutture di una metropolitana". Ora, per dire le ragioni della poesia, siamo costretti, bisogna, che si diventi a nostra volta poeti per sognare ciò che l'altro, "il poeta" appunto ci canta, in questo caso è dato di notare e connotare quelle intriganti sensazioni, che in un altrove temporale si sarebbero forse vissute su sanguinosi campi di battaglia e nelle dolorose e anch'esse sanguinose processioni del medioevo, con ottave o endecasillabi, come all'epoca si usava. Oggi le "intriganti sensazioni" non sono che visioni effimere che i finestrini delle vetture nel transito veloce del veicolo proiettano come immagini larvali su chi è in attesa dell'altro treno in banchina.

1 da un verso di Verlaine che cito a memoria: "domani all'alba partiremo in carrozza per il paese degli eccetera"
2 Filippo Tommaso Marinetti, da Manifesto del Futurismo - anche Marinetti era sensibile alle stazioni ferroviarie
3 Vincenzo Pezzella
4 Saffo Fr,47
5 Luciano Caruso - Note di un commiato - Poesie di Transito - Ed. Archivio Dedalus

La Poesia del nostro mondo si era retta su una costruzione musicale, il martellare del fabbro ha dato ritmo al futuro. Il Poeta in quella rigida griglia inseriva la musica del suo pensiero, in effetti tutte le costruzioni della mente sono delle àncore cui si attacca la "ragione". Le matematiche dell'intelletto non sono altro che l'estensione di griglie di comodo nelle quali esercitare la conoscenza dell'universo. Nelle stazioni della metropolitana di Milano esistono dei marchingegni mediante i quali con piccola spesa è possibile stampare a proprio piacimento una cinquantina di biglietti da visita o inviti o quant'altro sia possibile stampare con caratteri a scelta su cartoncini secondo modelli preordinati. Diventa importante per il poeta che vive il presente, definire la "machina" che incastella il generato della poesia. La struttura della"Poesia" non è il modello che la costruisce? Tutte le cose inerenti il fare, fin dai tempi più antichi, furono incasellate e anche la poesia ebbe le sue regole. Il verso ebbe, i suoi accenti, la sua musica, e la composizione poetica i suoi schemi che, non è una novità, furono tralasciati dal secolo scorso. Fin dal medioevo (6) però "Il poeta" aveva compreso, che nel momento in cui la poesia passa dalla fase orale a quella scritta, l'occhio acquista una parte notevole nella sua appercezione, da ciò si introita che la poesia ​scritta, quella che si legge, non è fatta solo della musicalità "sonora" del verso, ma anche di ciò che attraverso l'occhio appare iconicamente alla mente come cosa che fa parte appunto del mondo della visione. Che nel grigiore anonimo di una metropolitana, un poeta, un esteta, possa trovare il modo di poetare, e di poetare a fronte di un oggetto anonimo e postmoderno come un biglietto da visita preordinato, (7) è cosa fattibile; oltre, c'è lo scatto di Pezzella. Se la poesia può nutrirsi delle gesta di un cavaliere errante, anche i cartoncini schematizzati uso selfie, svolgono analoga funzione, ove servano a costruire e a pretestare lo strumento stesso della poesia. La solitudine di ​una metropolitana qualunque, può valere quella di un passero solitario. Il rombo del treno, il vocio sommesso della folla, suggeriscono quelle allitterazioni che hanno suggestionato non solo i futuristi, ma a guardare, anche D'Annunzio, che notoriamente professava altre idee:

Seigneur!
- Bien aimé!
Seigneur!
- Bien aimé !
- Bien Aimé- 8


Fa riscontro: [...]
pensavi..rognonecipolla

a-cena-con-TITANO-tra-i-libri..
mentre-da-un-cieloargentoufo-filtravano-
[...] da PoesiaditransitoRipa47 (cop15/18.10.96PortaGenovaF.S.Ripa)


Parole che in una scrittura rapida non diventano altro che cascate di simboli, grafemi appunto che incartano le immagini, ma non è tutto, Pezzella riesce ad esplicare una sensibilità introspettiva che assorbe la considerazione del presente pescando nei meandri di una fantasia lattiginosa, e riesce a trovarvi il qualcosa della poesia. Si affaccia, spesso insistente e perversa, un’ironia criptica e sottile, frutto certo di cultura profonda e fruttuose meditazioni.  Relativamente all'esternazione delle idee-immagini, il suo compitare sposa sommessamente l'aspirazione di "fare poco non per molti" come Gòngora manifestava, all'uopo Pezzella dice la sua

6 Si Veda -Luciano Caruso -- "Iuvenilia loeti" raccolta di poeti latini medievali - Lerici 1969
7 Il limite di un biglietto da visita, su schemi predisposti e modesti, previsti per chi aspira con i dozzinali cartoncini dei biglietti da visita a una collocazione promozional-borghese.
8 D'Annunzio - da " La quatrieme mansion" in "Le martyre de Sait Sebastien" - Che nell'edizione del Vittoriale è proprio nella veste che riporto, D'Annunzio sapeva bene che la qualità e la disposizione dei caratteri tipografici  teatro, in un opera recitata, non si possono vedere. I motivi sono altri e certamente questa scelta tipograficamente molto efficace, andava a coloro che avrebbero letto e non ascoltato il testo. indicando ai posteri, con la solita macchinetta serial/dozzinale presente in ogni stazione, il pensiero della nostra attualità: [...]

AlbanesiMagherbini - mareediPantelleria-zatterenaufragano-nudilorobranco/ma-io-inqualebranco
sono../cop.15/2.1.97Sgea-S.Babila

con i versi
​E scortica le mie midolla
il raschio ferrigno del tram
Silenzio - un gesto fulmineo
Ha generato una pioggia di stelle (9) 

Nel metrò l'astrazione si riversa nel sogno e provoca pulsioni che possono essere tenaci e straordinarie a seconda della capacità di abbandonarsi e vivere senza altro freno, quello che la cultura ha iniettato nella fantasia; così il ragioniere vivrà la possibilità di stilare l'ultimo bilancio della Banca d'Italia, l'avvocato sognerà di perorare la causa delle anguille ladre nel tribunale delle stelle, la massaia di manipolare l'ultimo risotto con contorno di nuvole e pioggia, al letterato resterà l'idea di un ricordo pensato, che elaborerà a memoria sul tavolino di casa. Ecco che a disposizione dell'impulso creativo e della pulsione che provoca, in un angolo, come per incantamento compare la macchinetta dei biglietti da visita, così una creatività eccitata dal limite del mezzo, potrà fermare subito e freschissime, come per gioco, tutte le immagini e i ricordi, ancora intatti, vivi e non mediati, dal tempo. Le parole giuste, le immagini e i simboli si incaselleranno taglienti nello spazio del cartoncino definito dalla tastiera; in pochi minuti l'idea diventa e si trasforma per gli eletti, in un oggetto tangibile. Non è importante che sia in poche copie, la poesia è per pochi, per pochissimi, forse solo per se stessi, meglio per nessuno. "Compresi che il lavoro del poeta non consisteva nella poesia, ma nell'invenzione di ragioni perché la poesia fosse ammirevole"(10) - da questo assunto viene che la poesia non può nè deve avere spiegazioni ascrivibili a nulla che sia sul gradino assoluto della ragione, essa certamente si rivolge a sistemi più profondi ed antichi potremmo dire ancestrali, nonostante che questo termine abbia una logica abusata. Pezzella, con carognesca e cinica determinazione, pescando lucidamente nei meandri della mente collettiva, che giocoforza conserva anche le ossa, usurate dei padri futuristi, non esita anzi si appropria con sadica allegria, per scopi eletti ma anche e perché no! decorativi, dei brandelli di quelle immagini che sono, vestigia da vedere o meglio per ricordare l'immaginario occidentale. Un gioco crudele e giocoso, che si appropria e diventa l'immagine nella quale nascondere il senso criptico e più vero della poesia. Mi piace concludere questo "transito" con le parole liriche e seriose di Rolando Bellini " In lui si condensa tutta un esperienza underground, con frammentarie reminiscenze newyorchesi, con evocative schegge del respiro del "tube" londinese nel quale si era rifugiato più di un artista durante l'ultimo conflitto... della freschezza della gioventù rock che oggi abita, a sprazzi, queste cavità affollate, dell'allegria napoletana di poveri senza paura della pioggia".
Enrico Bugli
Napoli, 20/11/17


9 Da "poesia poesia" di Dino Campana
​10 Borges - L'aleph - edizioni UEF
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4/12/2019 0 Commenti

POESIEdiTRANSITO: Senza Titoli 1994-1999

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31 Marzo 2019

Fb per questo post prendo alla lettera il tuo portale delle amicizie. Invio questa ultima puntata dell'auto-biografia letteraria sulle PoesiediTransito a tutti i presenti nella mia rete. Un dialogo con il caso che dalla vita non possiamo escludere, anzi è il fondamento del nostro viaggio. Io sono un epigono, la mia lingua madre non è neanche l'italiano ma il napoletano. Mi sono trovato per condizioni storiche sul palato una lingua ridotta a frammenti di una vita quotidiana frammentaria, già Joyce ne coglieva la fine agli inizi del secolo scorso. Ho voluto scrivere come il nostro antenato delle pietre e dei graffiti, l'ho solo fatto con una macchina a elettroni, in quest'azione mi soffiavano nelle orecchie e nel cervello Baudelaire e Rimbaud, poi avevo si, un cuore italiano; “sempre caro mi fu quest'ermo colle” che il mio orizzonte non aveva, non poteva avere, perché non c'era più un orizzonte geografico ma cosmico. I miei occhi in questo vagare come le onde radio, gli infrarossi, il carico strumentale dei satelliti lanciati verso buchi neri e danze mortali di galassie. Si, è vero sono caduto in quella presunzione di poter portare un testimone del nostro inciampare della e nella nostra storia: sempre tesa tra vanità e conservazione. Ma tutto questo perché ci risvegliamo dall'essere stati gettati nel mondo con un senso di assenza come votati all'unico compito e senso che è ” Oltre la sfera che più larga gira, passa 'l sospiro ch'esce del mio core”. La sua funzione di memoria di una contabilità non può essere scissa dall'azione che ne codifica la procedura e perciò dall'iscrizione di un confine, una norma, un contesto rituale, in un certo senso una prima vittoria sugli dèi e su qualunque altra divinità; in questo la prima conquista dell'encefalo dell'homo appunto sapiens. Ma come Platone già aveva intuito: la narrazione, in quanto scrittura, aveva un suo lato oscuro o potremmo dire speculare e cioè avrebbe aperto il vaso delle interpretazioni, in un certo senso dato ragione ai sofisti, sarebbe potuto diventare un balbettare. E si, così è la mia balbuzie in quest'opera che scorre ai milioni di minuti della vita, metafora cara a Giancarlo Majorino. Io sono “homo sanza lettere” il mio inciampo del nel linguaggio è quel sasso lanciato nell'acqua di uno stagno dal Vinciano e dal De Dominicis, le traslazioni di Ketty la Rocca, i moduli di Di Bello, o più semplicemente quegli stampini che uscivano dalle cicche rosa che si timbravano su un album di figurine.  No, sono troppo giovane per la stagione dei “Visivi” che credo tramontata per sempre come i pittori dilettanti che imitano l'impressionismo e la pittura in plein air senza comprenderla. Io sono un disperso senza cultura con l'unica tradizione ancora possibile quella di essere di questa specie, almeno sembra. Non sono un contadino, non sono un operaio ma non sono neanche un intellettuale che in questo sistema non serve. Sono come quella scavatrice pasoliniana che raspando trova solo macerie, anzi neanche più le macerie che sono state anche quelle seppellite dall'ingorgo del nostro tempo, dalle plastiche, dai rifiuti della cloaca in cui siamo caduti. Come lontano è il tempo dei ragazzi di PortoVenere e anche quello di Denver, Tangeri e di “Urlo”. Ora i reali venderanno una linea di smartphone per confondersi e resistere nell'omologazione del capitalismo; forse che il tempo dell'uomo si è fermato a Ettore e Achille? Ma se noi non siamo neanche quella speranza di Gilgamesh di diventare “dèi”, chi siamo? Il delirio di Molly che conferma Calderon de la Barca e la ruota eterna delle campane che tutto è sogno? Nessuno di noi comincia qualcosa, perché quel qualcosa è da sempre e non va in nessun luogo né fine. Eppure noi non possiamo rinunciare a quell'attesa della notizia, anche questa fosse “la cavalla storna” di memoria scolastica con un messaggio di tragedia e sofferenza; perché quella sofferenza siamo destinati o condannati a raccontarla. Metterla sulla scena del mondo e delle nostre debolezze, farne un momento di condivisione come nel teatro i Greci. Mi piaceva tirare al bersaglio al luna Park quando, come il giovane Holden, ancora ci andavo, nella ciurma della nostra infanzia, vagando per le strade e le marine, ma ci andavamo per le ragazze che ci sollecitavano a spendere quelle poche monete guadagnate con un posteggio o “a strisc a 'muro” con un sorriso così solare come solo le ragazze Rom sapevano mostrare. Età pascoliana e dell' “Angel” tramontata per sempre come quei libri di lettura per l'estate, scadenti di aspetto e di contenuto, che andavo a ritirare in sede di un improbabile distributore, nei pressi dello stadio San Paolo a Fuorigrotta, dove giocavamo a calcio e il volume finiva utile lì a segnare il palo di una porta e la sua rete.
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4/12/2019 0 Commenti

POESIEdiTRANSITO: PAROLE COME TELOMERI

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29 Marzo 2019

Ciao fb e amici che mi leggete; mi sono rimaste 4 puntate di quest'autobiografia sull'opera “PoesiediTransito 1994-1999”. Vado a continuare. Scrivere, scrivere, come dipanare le sementi o seguire la corrente di un rivo, è l'attorcigliata catena genetica di un tempo litico così mi viene in mente il pennino di Luciano Caruso che verga ogni oggetto trasformandolo in reperto; è da quel testimone arcaico, che non potevo più usare, il filo del mio travaso su nastro nero e laser una scrittura più vicina al liquido dei bit, un dialogo con i telomeri che resistono quanto le parole a voler dire qualcosa, a voler essere qualcosa, a voler conservare qualcosa. Il paesaggio urbano mi offriva nuovi strumenti e contatti che la mano avrebbe potuto imbrigliare nel suo distendersi nel suo aprirsi e fluttuare, richiudersi e separare; una macchina con una camera ottica interna come il corpo nero di Planck, le vergini di Balthus o l' étant donnés di Duchamp. E sopra di me la volta celeste con i suoi occhi seducenti, da una rete a un'altra rete come la pioggia d'oro di Danae che mi ritrovo nelle narrazioni dei Talent's, oramai planetari, americano, asiatico, australiano, britannico e così via il canto sul palcoscenico del mondo premiato con “golden buzzer” e lacrime. Mi ritorna in mente “...bella come sei”, l'oro dell'estate napoletana, il celeste e l'azzurro che ho usato per le mie prime opere; dove avevo comprato un lungo rotolo di tela a metro mi proposero un'offerta di grossi barattoli di azzurro, e così li presi, “dipingerò l'azzurro” mi dissi. Anche la pittura è come se l'avessi scritta; in quegli anni, avevo riportato il graffito a immagine del discorso, e con la scrittura il verso a essere immagine di se stesso; un calligramme a puntate ma senza mai fine. Non ho cercato la tecnica del rinascimento che credo serva al restauro ma di percepire per osmosi e un poco anche alambicco la tecnica del mio tempo, quei modi e quei temi che certo non potevano essere presenti nell'uomo medievale né tanto meno rinascimentale. A ogni tempo il suo vocabolario e la sua sfida.
Di quale lingua stiamo parlando? Quella dei siciliani di Federico, quella di Dante o Petrarca, Leopardi o Manzoni, Ungaretti, Montale, D'annunzio, Bertolucci, Pasolini, Zanzotto, Sanguineti? La lingua scritta è sempre formale proprio perché deve tradursi in una forma; il suo algoritmo è anche visivo; una proprietà della scrittura che è molto più esplicita e consapevole nelle culture cine-giapponese. Lo scrittore non agisce mai solo con la proprietà del tempo ma anche con una coordinata dello spazio, alcuni disponendo gli appunti e i fogli di bozze in modo molto personale in posizione mappale o grafico-visivo, e anche i doppi tavoli di scrittura possono suggerirne la pratica come lo era per Italo Calvino. In qualche modo il supporto e i suoi limiti ne costituiscono anche il respiro. La musicalità finisce comunque per essere intrinseca al testo alla sua freccia di lettura. Ora noi non ci facciamo più caso perché con i display dei computer prima e con quelli dello smartphone poi siamo abituati a uno scorrimento linguistico senza precedenti; i futuristi sarebbero impazziti di entusiasmo. In fondo con le loro esperienze un po' tali risultati odierni li hanno anticipati. La scrittura è molto vicina all'astrazione matematica ai sistemi formali della logica, tanto che è successiva alla pittografia. La scrittura è la prima equazione della mente è un processo di riduzione dei fenomeni del reale a una sua sintesi immaginaria. Ecco perché la scrittura è la leva tecnologica più avanzata, e sono, i minoici prima e i greci poi, ad aver posto i fondamenti della civiltà della tecnica e quindi del pensiero dialettico. Ma la scrittura è anche il primo atto di separazione io-mondo, è l'autoreferenzialità della psiche che si nomina, il suo lapsus verbale. La lingua scritta è destinata a semplificarsi ulteriormente per tendere sempre più verso la matematica, il linguaggio formale delle costanti e delle emozioni. Certi contenuti nuovi si possono scrivere solo modificando la lingua e alternandone i suoi paradigmi, smontandola e ricostruendola come i mattoncini di un lego.
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4/12/2019 0 Commenti

POESIEdiTRANSITO: la doppia CC (...arancia, limone e fragola...1,2,3, stella!...)

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25 Marzo 2019

La parola è il nostro lasciapassare. Non sono i piedi che ci portano ma la lingua: la parola. Per noi è lo spartiacque tra l'essere e il non-essere. La nostra convinzione d'esistenza passa per un atto simbolico proiettato in un tempo-spazio che è una bolla che fluttua nel vuoto. La parola ci attraversa e con essa ci attraversiamo; la nostra condizione è il transito, non solo perché la nostra meta è sempre più in là dell'orizzonte ma perché la parola è essa stessa transito, nella sua radice è il transitare di una proprietà reale a una “proprietà” simbolica, appunto il linguaggio. Che sia di struttura fine che sia gravitazionale o anche di altre costanti, la principale, unificante, convergenti e convergente in una unica transizione di fase o condizione, ci sembra poter dire che C come contatto ne soddisfi la risposta: a dove siamo, come e perché. In questa costante apparentemente non matematica c'è la radice della nostra parola e mi piace pensare che questa sia intrecciata alla necessità delle altre, alla loro variabilità spazio-temporale come nella biologia di un fiore “l'energia che spinge la vita dal calamo alla corolla” nei magnifici versi di Dylan Thomas. E se le costanti sono un lasciapassare, allora perché escludere che questo lasciapassare appartenga anche all'immaginario che si modella in una sua complessità organica, il cui vertice è la parola: nominare se stessa? Con essa indaghiamo le costanti dell'universo, della natura e creiamo nuovi universi seppur immaginari e confinati nel nostro tempo-spazio; gli diamo una fluttuazione, un canto. Accogliamo così come prima azione, degna di essere cantata, la principale costante: il contatto. E la parola ci porta per mano o per meglio dire diviene il nostro soffio. Il mantra nel quale sintonizziamo la biologia del battito cardiaco e delle sinapsi neuronali accendendo il contatto in una osmosi quasi inavvertibile eppur presente e profonda come quando ci si immette nel salto alla fune in un gioco già avviato: “arancia, limone e fragola: 1, 2 e 3 stella!”. Che ci possono essere altre costanti, appena variate, in cui non sia sorta la catena che ci ha portato a disegnare col gesso sul selciato le caselle del Mondo, è per noi, certamente, un vuoto di senso, un doppio vuoto rispetto a quello quantico della fluttuazione che qui ci ha dato la parola e con essa la meraviglia, non credete? Nella parola nasciamo, per quanto sia non articolata, onomatopeica, e con la parola in gola ritrasformata in soffio moriamo; nel mezzo i “Passages” in cui si schierano sulla scena i protagonisti della nostra “Commedia” sia dantesca che felliniana, quel volto che stentiamo a riconoscere nelle vicende del quotidiano, quando il tempo solca le sue misure imponendoci la partita all'orizzonte del nostro viaggio come nel settimo sigillo bergmaniano.  Nel mio viaggio i passages erano gli strumenti di transito e non le merci, il paesaggio più un'assenza che una presenza; eppure ritorno a questo tema dei frammenti proprio in questi mesi con disegni per un libro su Benjamin, non dimenticando neanche l'Angelus Novus che ho disegnato e riproposto in una ambigua età. L'assenza petrarchesca che ereditiamo non è solo del volto che la parola può far rivivere ma anche del paesaggio, perché nel paesaggio e nei suoi gironi si è consumata la nostra speranza e con essa la nostra vita. Faticavo riconoscerlo, quel paesaggio intorno a me, quando scrivevo, ne percepivo l'alienazione e il distacco; le contraddizioni pasoliniane della cultura contadina nell'urbanizzazione non lasciavano più tracce già dagli anni ottanta. Ero un disperso, come avrebbe detto non solo di se stesso Maurizio Cucchi; ciononostante delimitiamo i territori come cani, anche Dino Campana e Ungaretti, Zanzotto lo sottolineano; ci trasformiamo nel paesaggio.  Ḕ il rito di ringraziamento che ci portiamo dalla notte dei tempi nel codice del nostro peregrinare o piuttosto graziati da un dio, come Bauci, Filemone e la più nota Dafne?
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