17 - 19 Marzo 2019
L'esplorazione è il nostro destino, se non fosse così saremmo rimasti nelle caverne, o nel confine di un territorio come le altre specie. Il neaderthaliano, il sapiens e il denisoviano, tutti volevano andare da qualche parte; ma perché vogliamo sempre andare da qualche parte? Non ci basta mai dove siamo? E l'ignoto il nostro destino? Abbiamo puntato già al cielo quando avevamo i piedi nel fango ed eravamo più simili a un albero che a un uccello, tanto meno a un aeroplano e non se ne parla a un astronave o satellite. Eppure il cielo è buio, muto, in un certo senso meno colonizzabile; ma ci attira che cosa? La conoscenza di che cosa? Il bisogno, l'anelito di quale contatto? Ecco la parola magica della nostra sete di esplorazione: il contatto. Nessuna creatura può vivere senza contatto. Il contatto è il motore dell'esplorazione, e questo non si estingue mai, non si sazia mai, sembra di no; è la nostra condanna? Tutta la nostra vita è cercare contatto, contatti, aspettarli, sperarli. Possiamo dire che è una costante con una sua matematica che per ora non sappiamo decifrare. Per confermarmi quanto vado scrivendo, Acqua, la mia gatta mi salta sul tavolo miagolando nel suo alfabeto la richiesta di una carezza, così senza particolare fine pratico, cibo, acqua o altro. In questo portiamo qualcosa che è più grande di noi è più grande della nostra intelligenza e della nostra volontà. I linguaggi non sono che strumenti di contatto, l'arte e le scienze lo stesso. Ma se nulla basta una volta per sempre, ciò vuol dire, nella ricerca, che siamo condannati a morire tante volte. Nella esplorazione infinita noi restiamo chi eravamo in partenza? Se ciò fosse vero non avremmo bisogno di tutto questo dispendio d'energia, di questo affannarsi di vanità, non credete? Un viaggio in Italia è anche un viaggio della scrittura è una canzone all'Italia; un canzoniere. Una parola che amo molto, dalle rime petrarchesche a quelle leopardiane e di Saba. E sì, Emilio Isgrò aveva colto nel segno fin dalla prima lettura dei cartoncini scritti in metropolitana. Raccolgo qui in due o tre post, vediamo fb quante immagini mi carica delle trecento circa, tra poesie, mappe e foto, e completo così la seconda parte di quest'autobiografia in rete. Continuo a viaggiare: amici di fb, ciascuna foto di voi è un luogo; in alcuni ci sono stato in altri no e neanche ci siamo incontrati, né passato assieme il pomeriggio. Viviamo di un viaggio comune che è quell'esplorazione di cui parlavo nell'apertura, questo contatto che ci spinge costantemente a quel gran dubbio, che sapientemente Kubrik in 2001 Odissea nello spazio o Tarkovskij in Solaris e anche in Contact di Zemeckis, hanno saputo sospendere nella loro narrazione, e cioè se al termine del viaggio finiamo per, sorprendentemente, ritrovare noi stessi, rincontrandoci! Ma allora non sono i luoghi che cerchiamo, quanto la memoria di noi stessi, riemergendo da quell'annegamento che il tempo della vita e forse anche della storia ci ha costretto a subire. Ilia, Narciso ed Eco, una triade che ci tiene sorretto su un guanciale comune, il riposo che possiamo immaginare nel rumore della vita. E la piazzetta di una contrada è uguale al metrò di una metropoli, quanto il lungomare di una città è uguale al sentiero di un paesaggio di campagna; in ognuno battiamo il capo con la domanda: chi ci viene incontro? Ce lo chiediamo pur avendo la vita piena di cose da fare, ma nessuna di esse ci soddisfa pienamente? Forse perché, noi, ci siamo in realtà separati dalla vita? E come se l'aspettassimo? L'aspettassimo sempre? E così le parole? Esemplare quella battuta che Antonioni mette in bocca al suo personaggio femminile dei racconti di provincia “Sopra le nuvole”: “una donna le parole le aspetta, le aspetta sempre”. E qui è la vita che aspetta, noi nominiamo il mondo sia per perderci che per ritrovarci come in uno specchio. E in un certo senso ritrovarne anche l'illusione, è come quando guardate dalla finestra muovere dal vento il bucato al vostro orizzonte; vi prende la nostalgia e dite: ah, ecco il tempo! No non sappiamo più vivere nel recinto della nostra classificazione, se questa c'è mai stata e se un recinto c'è mai stato. Con le narrazioni religiose ne abbiamo immaginati, e questa immaginazione ci ha dato tanto la grotta di Lascaux che la Cappella Sistina.
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4/12/2019 0 Comments POESIEdiTRANSITO: Seconda Parte3 Marzo 2019
Grazie fb mi chiedi più cose di quanto io te ne possa scrivere, un post al giorno è difficile; c'è la vita: il mercato, cucinare, gli incontri, la figlia, l'arte, intanto continuo quest'autobiografia in forma di commento al passato, e provo a raccontare un'esperienza. POESIEdiTRANSITO: un manifesto poetico per un solo autore e miliardi di consumatori. Delle PoesieDiTransito ci sono tre scatole-multipli che raccolgono i self-card (cartoncini) del Canzoniere dal 1994 al 1999: la scatola zincata, la scatola mandorlata, la scatola-faro. Mentre sbuccio le mele per una crostata penso a tutta la poesia che è stata scritta, a quella che resterà e a quella che non resterà perché mai nato il suo dire. La parola che si perde nella scrittura, ecco, per certi versi lo spartiacque della nostra civiltà che trasforma il soffio della parola, il suo suono in segno e tecnologia, in codice di scrittura e di significante; Socrate ne avvertiva il rischio, l'indebolimento e anche il travisamento, la corruzione possibile, quando viene separata dal suo organismo vivente e perciò critico: aprendo, con il testo della scrittura, così, al tramonto della verità assoluta, la parola del dire orale, l'unica che ci darà misura e sapienza perché sperimentata nel tempo, qui ed ora. E non è, forse, questo il tempo della verità e del bene, del giusto, e oggi, nella nostra visione etica, è anche quello dell'amore? Quali scatole possono sostituire queste tre da quelle di una lontana infanzia: la scatola delle figurine, la scatola delle biglie di vetro, la scatola dei chiodi e del sughero con il filo di nailon per la pesca; contenitori di biscotti bucaneve in latta o il cartone della colomba, per custodire ricchezze, per giocare con il tempo alla sua misura, e cioè dare un valore simbolico alle cose, agli oggetti che non ce l'hanno, o ce l'hanno solo per noi come “Rosabelle”; e ci accompagnano per quel salto che dovremo fare a conclusione della giovinezza, rinunciando all'utopia ch'era nel nostro sangue, nel nostro respiro quotidiano, a dover essere come gli “adulti” senza speranze, senza sogni, mentre queste raccolte dell'immaginazione ci fanno crescere e guai se non ci fossero. Un manifesto si scrive perché altri aderiscano, compiendo le stesse azioni o simili e incitando parole comuni, lo stesso progetto di vita, scardinando vecchi paradigma, aspirando a orizzonti da condividere. Ma se questo si scrive al tramonto di un'esperienza, coloro che si risveglieranno in un'alba nuova porteranno con sé quelle parole “nuove e d'azione” inconsapevolmente? E questo perché il paesaggio tecnologico del quotidiano ne ha assorbito e assimilato i contenuti e finanche le forme e gli strumenti. Ho cercato scatole che potessero conservare alfabeti di magiche esplorazioni, narrazioni immediate e anche stratificate. Mi accorgo che il mio vagabondare ha una radice antica; per me è seguire una mappa che non vedo né conosco ma che esploro, questa si stende poco alla volta ogni volta che stendo la gamba e allungo il passo, e prendo la direzione, la terra mi cresce sotto come una radice che spunta, germoglia, si radica, si espone, all'aria, alla luce; è una mappa emozionale, una geografia che ho nel sangue, mi governa come l'energia oscura del cosmo in un accelerazione che cresce. E così ho imparato che per ogni viaggio si va da soli, perché ogni viaggio contiene il viaggio della propria vita e del proprio destino: noi siamo “gettati” alla consapevolezza di non poter più tornare indietro. E da adulti, seppur abbiamo rinunciato all'utopia ai sogni dell'infanzia, noi tutti ancora le cerchiamo queste custodie improvvisate e improbabili. Avvertiamo che raccoglierle dal loro destino obbligato, sottrarle ai rifiuti è il nostro modo per sentire un'appartenenza, per tessere una comune sinapsi, una mitosi, un campo scalare d'energia. Mi frulla per la testa il binomio eccitazione-appagamento, il sistema chiuso delle nostre esperienze, come ne parlavo con Veronica che segue con me fb in questo periodo. E su questa condotta che fondiamo la nostra esplorazione in qualunque mondo e a qualunque età se teniamo in vita il cervello e alimentiamo tutto il resto delle nostre percezioni e del nostro corpo. Un riflesso pavloviano che conserva lo stimolo all'esplorazione senza alcuna tregua, “fino e all'ultimo respiro” magnificamente citato da uno dei maestri del nouvelle vague. Si, è avere una wunderkammer portatile, compagna del viaggio, la nostra aspirazione; tutte quelle citate, tante scatole in una, dove poter sollevare il coperchio e scendere nel fondo, come in quella bellissima canzone napoletana “Cum me”. L'abbiamo fabbricata la scatola dello “straordinario”, raggiungendo forse quel fondo, in una strana apnea dalla realtà, pur legandosi in un sottoinsieme di questa stessa, continuamente, con interruzioni solo di contatti ma non di rete che è un'energia a sistema aperto , una trasformazione di fase del vuoto; in essa ritroviamo i sogni che non abbiamo fatto e quelli che vorremo fare nel codice 0 e 1. E da una valle all'altra, da un continente all'altro, dalla Rift Valley alla Silicon, dalla mandibola kubrickiana alla Hubble satellitare, quegli impulsi di campo ci veicolano nello schermo più magnetico del nostro presente, nella scatola di tutti i giochi possibili e della memoria degli stessi, il talismano magico dei desideri, l'oracolo , il tabernacolo del nostro quotidiano: lo smart-phone, senza il quale ci sentiamo privati e deprivati della mappa, del cordone ombelicale della nostra comunità, sempre pronto a un contatto a una narrazione, a un viaggio verso l'ignoto, alla ricerca di mondi sconosciuti, come la navicella più fantascientifica delle nostre affezioni da consumatori. 4/12/2019 0 Comments POESIEdiTRANSITO: un manifesto poetico per un solo autore e miliardi di consumatori.2 Marzo 2019
Delle PoesieDiTransito ci sono tre scatole-multipli che raccolgono i self-card (cartoncini) del Canzoniere dal 1994 al 1999: la scatola zincata, la scatola mandorlata, la scatolafaro. Mentre sbuccio le mele per una crostata penso a tutta la poesia che è stata scritta, a quella che resterà e a quella che non resterà perché mai nato il suo dire. La parola che si perde nella scrittura, ecco, per certi versi lo spartiacque della nostra civiltà che trasforma il soffio della parola, il suo suono in segno e tecnologia, in codice di scrittura e di significante; Socrate ne avvertiva il rischio, l'indebolimento e anche il travisamento, la corruzione possibile, quando viene separata dal suo organismo vivente e perciò critico: aprendo, con il testo della scrittura, così, al tramonto della verità assoluta, la parola del dire orale, l'unica che ci darà misura e sapienza perché sperimentata nel tempo, qui ed ora. E non è, forse, questo il tempo della verità e del bene, del giusto, e oggi, nella nostra visione etica, è anche quello dell'amore? Quali scatole possono sostituire queste tre da quelle di una lontana infanzia: la scatola delle figurine, la scatola delle biglie di vetro, la scatola dei chiodi e del sughero con il filo di nailon per la pesca; contenitori di biscotti bucaneve in latta o il cartone della colomba, per custodire ricchezze, per giocare con il tempo alla sua misura, e cioè dare un valore simbolico alle cose, agli oggetti che non ce l'hanno, o ce l'hanno solo per noi come “Rosabelle”; e ci accompagnano per quel salto che dovremo fare a conclusione della giovinezza, rinunciando all'utopia ch'era nel nostro sangue, nel nostro respiro quotidiano, a dover essere come gli “adulti” senza speranze, senza sogni, mentre queste raccolte dell'immaginazione ci fanno crescere e guai se non ci fossero. Un manifesto si scrive perché altri aderiscano, compiendo le stesse azioni o simili e incitando parole comuni, lo stesso progetto di vita, scardinando vecchi paradigma, aspirando a orizzonti da condividere. Ma se questo si scrive al tramonto di un'esperienza, coloro che si risveglieranno in un'alba nuova porteranno con sé quelle parole “nuove e d'azione” inconsapevolmente? E questo perché il paesaggio tecnologico del quotidiano ne ha assorbito e assimilato i contenuti e finanche le forme e gli strumenti. Ho cercato scatole che potessero conservare alfabeti di magiche esplorazioni, narrazioni immediate e anche stratificate. Mi accorgo che il mio vagabondare ha una radice antica; per me è seguire una mappa che non vedo né conosco ma che esploro, questa si stende poco alla volta ogni volta che stendo la gamba e allungo il passo, e prendo la direzione, la terra mi cresce sotto come una radice che spunta, germoglia, si radica, si espone, all'aria, alla luce; è una mappa emozionale, una geografia che ho nel sangue, mi governa come l'energia oscura del cosmo in un accelerazione che cresce. E così ho imparato che per ogni viaggio si va da soli, perché ogni viaggio contiene il viaggio della propria vita e del proprio destino: noi siamo “gettati” alla consapevolezza di non poter più tornare indietro. E da adulti, seppur abbiamo rinunciato all'utopia ai sogni dell'infanzia, noi tutti ancora le cerchiamo queste custodie improvvisate e improbabili. Avvertiamo che raccoglierle dal loro destino obbligato, sottrarle ai rifiuti è il nostro modo per sentire un'appartenenza, per tessere una comune sinapsi, una mitosi, un campo scalare d'energia. Mi frulla per la testa il binomio eccitazione-appagamento, il sistema chiuso delle nostre esperienze, come ne parlavo con Veronica che segue con me fb in questo periodo. E su questa condotta che fondiamo la nostra esplorazione in qualunque mondo e a qualunque età se teniamo in vita il cervello e alimentiamo tutto il resto delle nostre percezioni e del nostro corpo. Un riflesso pavloviano che conserva lo stimolo all'esplorazione senza alcuna tregua, “fino e all'ultimo respiro” magnificamente citato da uno dei maestri del nouvelle vague. Si, è avere una wunderkammer portatile, compagna del viaggio, la nostra aspirazione; tutte quelle citate, tante scatole in una, dove poter sollevare il coperchio e scendere nel fondo, come in quella bellissima canzone napoletana “Cum me”. L'abbiamo fabbricata la scatola dello “straordinario”, raggiungendo forse quel fondo, in una strana apnea dalla realtà, pur legandosi in un sottoinsieme di questa stessa, continuamente, con interruzioni solo di contatti ma non di rete che è un'energia a sistema aperto , una trasformazione di fase del vuoto; in essa ritroviamo i sogni che non abbiamo fatto e quelli che vorremo fare nel codice 0 e 1. E da una valle all'altra, da un continente all'altro, dalla Rift alla Silicon, dalla mandibola kubrickiana alla Hubble satellitare, quegli impulsi di campo ci veicolano nello schermo più magnetico del nostro presente, nella scatola di tutti i giochi possibili e della memoria degli stessi, il talismano magico dei desideri, l'oracolo , il tabernacolo del nostro quotidiano: lo smart-phone, senza il quale ci sentiamo privati e deprivati della mappa, del cordone ombelicale della nostra comunità, sempre pronto a un contatto a una narrazione, a un viaggio verso l'ignoto, alla ricerca di mondi sconosciuti, come la navicella più fantascientifica delle nostre affezioni da consumatori. 21 Febbraio 2019
Concludo questa PRIMA PARTE con alcune immagini che sono la memoria di quel nostro album intimo dove le seppelliamo e le ritroviamo, le evochiamo e le rimuoviamo, ne erigiamo una intera civiltà. Ma gli Anunnaki ne avranno? La teologia cristiana, la mitologia sarà mai nata lì. Qualche giorno fa girava sulla rete un breve video sulla stazioni centrali del metrò di Mosca; erano strabilianti tanto somigliavano a sale di Musei. Non avrei potuto scrivere lì, e neanche mi avrebbero ispirato quei versi, poiché la geografia emozionale dei luoghi aveva già una sua precisa estetica un voler essere luogo e tempo. Quanto posto sono frammenti disomogenei in dialogo tra loro come l'insiemistica nella teoria dei numeri. 4/12/2019 0 Comments POESIEdiTRANSITO: S/T DOVE SEI?17 Febbraio 2019
Quando ero ragazzo raccoglievo e giocavo con le figurine, come tanti di voi. Tutte queste immagini, foto, mappe, disegni, non sono forse tanto diverse da quello spirito di identificazione, di celebrazione di traccia e tracciato da seguire e allo stesso tempo lasciarsi indietro, perdere? E l'intera catena di post di fb non è nata come raccolta: libro delle facce. Insomma esploratori raccoglitori continuiamo a esserlo anche se molti di noi non raccolgono le patate o le carote. Abbiamo il terrore di perderci e di perdere qualcosa di noi se non la versiamo in immagini; il mito di Narciso, Eco, Psiche, ci sono dentro e non possiamo separarcene; è un processo di formazione. E si, voglio prenderlo così, questo aver dedicato, come Pollicino, al mio crescere il tempo e il gesto di lasciare mollichine, evidenti tracce per perdermi o ritrovarmi? Molte volte ho dichiarato nelle presentazioni pubbliche che il progetto di documentare i poeti lombardi mi è nato dal desiderio di conoscere le loro strade battute, d'infanzia, il territorio, i sentieri; rifare quel percorso con i versi e le parole che questi hanno scelto non è forse una forma di raccolta assieme a un raccoglimento? Una cosa è certa, è che si può raccogliere solo fuori dal tempo, stando fuori dal tempo corrente, dal suo scorrere, sembra un paradosso. Ecco, direte: la biografia nell'arte non va confusa, ma perché qualcuno la può tranquillamente escludere pensando di poter separare il tempo dallo spazio? Non procediamo, in tutti i meridiani, a parte la scelta Zen, nella realizzazione di una raccolta dell'album mondiale delle immagini consolatorie di qualcosa di perduto per sempre, ma anche capaci di suscitare in noi una esaltazione, un cambio di stato della coscienza, una chiave per una realtà che ci liberi dalle zavorre del quotidiano? Ho sempre pensato che non si è dedicato abbastanza attenzione critica, nel processo della scrittura, ai materiali e ai luoghi dove questa è stata creata, e mi riferisco anche alla cosiddetta poesia lineare. Una lettura e indagine rinsalderebbe lo spazio e il tempo che ci sembra tanto separato nell'opera della poesia. Campana e Leopardi scrivevano su carte e con penne diverse, in luoghi e alterazioni diverse. Andare a caccia di una geografia emozionale è l'indagine che ci tiene legati tutti. Solo che oggi la sparizione della scrittura è immediata con gli smart-phone, cosa che che ci autorizza all'uso di una lingua instabile e allo stesso tempo trasversale e immediata, il supporto è senza coordinate di spazio tempo tanto che nelle finestre delle piattaforme social più spesso viene indicato come una scelta possibile; dove sei? Si, è quel dove sei di Pollicino, e quel dove sei del viaggio della vita, e quel dove sei di tutti noi nel quotidiano, o che stiamo tornando a casa, o che non ci possiamo tornare o che stiamo andando incontro al nostro ignoto o al nostro amore, a cui siamo chiamati a rispondere. 13 Febbraio 2019
Non possiamo sfuggire a un iconismo continuo e permanente del nostro orizzonte percettivo. Qualunque esperienza di contatto con la realtà attraverso linguaggi percettivi la traduciamo appunto in segni sintetici che abbiamo utilizzato come memoria e scambio di formazione per tutto il viaggio fatto dietro di noi, da un punto zero, se c'è mai stato, antropologico e fisico. Ḕ opportuno dire con franchezza che questi segni, divenuti sistemi icnofonici della percezione, utilizzandoli per vendere, li riduciamo a sostituire la realtà da cui sono nati, impoverendone i processi di analisi e conoscenza. Ma se è l'appartenenza ciò che ci manca, se è solo l'appartenenza che ci completa perché desistiamo dal completamento dell'unica strada che ci renderebbe più felici? Vivere il reale piuttosto che la sovrastruttura dei suoi significati, come ci ricordano i versi “ vivere vorrei, addormentato, entro il dolce rumore della vita”. Preferiamo venire assaliti dalla nostalgia di un mondo che noi stessi abbiamo distrutto ponendo la mostruosità dell'io in contrasto con la natura. E non siamo più capaci ora di ristabilire quell'ascolto, quella condivisione, quel viaggio nella bellezza e misura; ci manca il canto, la voce stessa è afona per intonarne l'offerta. E per questi mali e assenze che si cerca il cielo e le stelle, nel viaggio che prima di me hanno compiuto in tanti, e ogni giorno del nostro risveglio è una speranza a cui vogliamo, dobbiamo credere; ecco quanto sentivo del sussurro, del richiamo intorno a me nei luoghi di transito, nei tunnel del passaggio, sul volto, negli sguardi, nella fretta dell'isolamento. E dietro ciascuno si portava il rancore di non aver detto tutto, di aver taciuto il desiderio più grande, di poter dire: ci sono: vivo! La città cambiava intorno a me, l'Italia cambiava nei volti dell'immigrazione e della povertà allargata lasciandosi inghiottire e illudere dalla corruzione della classe dominante al servizio delle finanziarie spietate del capitalismo mondiale. L'arte è diventata iconica quando ha voluto dare all'uomo le sembianze di un dio, trascendendo la natura e in un certo senso assoggettandola con una volontà di potenza che quel dio stesso gli avrebbe concesso a condizione di una sottomissione del corpo oltre che dello spirito. Ma quel processo nato nella condivisione del gruppo di appartenenza e del rito ha subito una fase di inflazione molto simile a quella di Guth che ha rotto l'equilibrio iniziale, decretandone una fase di surrogazione, dove la “copia” la preferiamo all'originale, quando addirittura non ne ignoriamo finanche l'esistenza e l'unicità fragile del suo stato di nascita: la incomparabile condizione di essere un frammento spaziotempo e perciò della nostra storia. Ero nel delirio, si, come quando il sonno non ti prende perché l'anima è troppo piena di cose da dare e non trova la via, non c'è più lingua comune, si è nel mosca-cieca del destino. Tutte le notti ci sembrano promettere e finire, dopo l'insonnia, con un cambiare vita, un battesimo d'acqua e grazia: una semplice rinascita. Una rinascita che ci mostra ciò che prima non avevamo mai visto, accecati dal troppo desiderio, da un mal riposto interrogare la natura della vita, la sua impermeabilità al tempo e alla volontà di potenza, riconoscendosi solo nell'acqua che scorre. Come per quelle originarie ombre noi desideriamo e vogliamo solo le cose che ci raccontano del vero in un calco; non abbiamo più lo stomaco per fronteggiare il reale e ne aneliamo il surrogato in “un mondo nuovo”. Eppure resistere vuol dire non dimenticarsi e accedere a quelle ombre infiammando il tuo mondo ogni giorno, ogni minuto di quel poco di luce che un fotone può concederti e illuminarne, con un segno, un verso, il destino comune, il ritmo del soffio del cuore. La nostra fragilità è nel aver dimenticato i limiti, i limiti di essere, non il tutto, ma solo una parte di quella natura che ci sovrasta, un suo frattale? E va bene, ma come la ripetizione differente di un numero periodico variabile, quando la fluttuazione quantica ancora non aveva dato vita a gerarchie, prima di ogni immaginario che ci distingue? |
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