4/12/2019 0 Comments POESIEdiTRANSITO: la doppia CC (...arancia, limone e fragola...1,2,3, stella!...)25 Marzo 2019
La parola è il nostro lasciapassare. Non sono i piedi che ci portano ma la lingua: la parola. Per noi è lo spartiacque tra l'essere e il non-essere. La nostra convinzione d'esistenza passa per un atto simbolico proiettato in un tempo-spazio che è una bolla che fluttua nel vuoto. La parola ci attraversa e con essa ci attraversiamo; la nostra condizione è il transito, non solo perché la nostra meta è sempre più in là dell'orizzonte ma perché la parola è essa stessa transito, nella sua radice è il transitare di una proprietà reale a una “proprietà” simbolica, appunto il linguaggio. Che sia di struttura fine che sia gravitazionale o anche di altre costanti, la principale, unificante, convergenti e convergente in una unica transizione di fase o condizione, ci sembra poter dire che C come contatto ne soddisfi la risposta: a dove siamo, come e perché. In questa costante apparentemente non matematica c'è la radice della nostra parola e mi piace pensare che questa sia intrecciata alla necessità delle altre, alla loro variabilità spazio-temporale come nella biologia di un fiore “l'energia che spinge la vita dal calamo alla corolla” nei magnifici versi di Dylan Thomas. E se le costanti sono un lasciapassare, allora perché escludere che questo lasciapassare appartenga anche all'immaginario che si modella in una sua complessità organica, il cui vertice è la parola: nominare se stessa? Con essa indaghiamo le costanti dell'universo, della natura e creiamo nuovi universi seppur immaginari e confinati nel nostro tempo-spazio; gli diamo una fluttuazione, un canto. Accogliamo così come prima azione, degna di essere cantata, la principale costante: il contatto. E la parola ci porta per mano o per meglio dire diviene il nostro soffio. Il mantra nel quale sintonizziamo la biologia del battito cardiaco e delle sinapsi neuronali accendendo il contatto in una osmosi quasi inavvertibile eppur presente e profonda come quando ci si immette nel salto alla fune in un gioco già avviato: “arancia, limone e fragola: 1, 2 e 3 stella!”. Che ci possono essere altre costanti, appena variate, in cui non sia sorta la catena che ci ha portato a disegnare col gesso sul selciato le caselle del Mondo, è per noi, certamente, un vuoto di senso, un doppio vuoto rispetto a quello quantico della fluttuazione che qui ci ha dato la parola e con essa la meraviglia, non credete? Nella parola nasciamo, per quanto sia non articolata, onomatopeica, e con la parola in gola ritrasformata in soffio moriamo; nel mezzo i “Passages” in cui si schierano sulla scena i protagonisti della nostra “Commedia” sia dantesca che felliniana, quel volto che stentiamo a riconoscere nelle vicende del quotidiano, quando il tempo solca le sue misure imponendoci la partita all'orizzonte del nostro viaggio come nel settimo sigillo bergmaniano. Nel mio viaggio i passages erano gli strumenti di transito e non le merci, il paesaggio più un'assenza che una presenza; eppure ritorno a questo tema dei frammenti proprio in questi mesi con disegni per un libro su Benjamin, non dimenticando neanche l'Angelus Novus che ho disegnato e riproposto in una ambigua età. L'assenza petrarchesca che ereditiamo non è solo del volto che la parola può far rivivere ma anche del paesaggio, perché nel paesaggio e nei suoi gironi si è consumata la nostra speranza e con essa la nostra vita. Faticavo riconoscerlo, quel paesaggio intorno a me, quando scrivevo, ne percepivo l'alienazione e il distacco; le contraddizioni pasoliniane della cultura contadina nell'urbanizzazione non lasciavano più tracce già dagli anni ottanta. Ero un disperso, come avrebbe detto non solo di se stesso Maurizio Cucchi; ciononostante delimitiamo i territori come cani, anche Dino Campana e Ungaretti, Zanzotto lo sottolineano; ci trasformiamo nel paesaggio. Ḕ il rito di ringraziamento che ci portiamo dalla notte dei tempi nel codice del nostro peregrinare o piuttosto graziati da un dio, come Bauci, Filemone e la più nota Dafne?
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