4/17/2019 0 Comments LE POESIE DI TRANSITO SU FACEBOOKI post che seguono raccolgono l'opera "LePOESIEdiTRANSITO" pubblicate su Facebook. É consigliata la lettura secondo le date indicate dal blog. La prima è "Grazie Facebook per aver sollecitate", datata 29/01.
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9 Aprile 2019 Abbiamo sempre una lettera da consegnare, ma non ci decidiamo mai perché dentro ci dobbiamo scrivere ciò che siamo stati. E il coraggio ci manca. Inoltre il castello che dobbiamo varcare non prevede il ritorno e nemmeno la certezza che giungeremo in qualche luogo o ci accoglierà qualcuno, né che saremo ascoltati. Tutta la vita siamo stati concentrati con la penna in mano per cogliere quel momento che ci facesse dire: ecco ho capito, sì ho vissuto! Per fortuna che la fretta e impazienza diminuisce con il tempo e così quando saremo nelle vicinanze del luogo che dovrebbe ricevere le nostre suppliche di una ritrovata umiltà, dopo aver attraversato quel deserto dei Tartari, ci accorgeremo di aver cercato un'America che avevamo distillato nel sangue come un Gan' Eden, un giardino delle nostre utopie dove abbiamo sperato di perdere la storia, di liberarci dalla catena di Psiche. Ma invano, perché il tempo è stata la nostra misura e la velocità del treno era l'unica che i nostri sensi percepivano; erano il nostro limite: nessuna formula ci veniva a soccorso per dirci qualcosa sulla nascita, farci immaginare la madre, il padre ai quali consegnare il nostro debito, la nostra lettera, o quelle poche parole balbuzienti che siamo stati in grado di scrivere sulla sua carta d'acqua. Per fortuna, inspiegabilmente i rimpianti ci riaprono le ferite, che strano a dirsi, ci legano in un contatto di specie, seppur conservando quello spirito indomito di migratore che m'appartiene nell'indole più che nella valigia del turista. “Io – vagabondo... quel bambino che giocava nel cortile...” e portava con sé la libertà dell'ignoto, quando poi negli anni ci dibattiamo con quel celeste cielo che non Sto arrivando! accoglierci ricordandoci la nostra gravità, mentre una polvere d'oro, tra lo spruzzo di latte di Era e l'inseminazione di Danae, negli show dei talents, ci promette, oggi, una vita da stelle. E si farà seme e germoglierà nel corpo nero di Planck come fu nel ventre di Maria e della Mariée e prim' ancora di Eva e di Lucy e così sarà poi di mia figlia Margherita di memoria faustiana, anche lei figlia di Lucy e di tante madri nell'infinita catena genetica? Alieni e alienati per maturare la bruciante coscienza che siamo noi quella lettera, e troppo tardi sarà quando ci accorgeremo, giunti dinnanzi al sorvegliante e con indescrivibile sorpresa, riconoscendolo come in uno specchio, che quella lettera dobbiamo consegnarla a noi stessi! Vincenzo Pezzella GIORGIO MOIO Intervista a Vincenzo Pezzella, autore di Poesie di transito. Ci sono poeti che scrivono e riscrivono le loro poesie forse perché insicuri, tagliano, aggiungono, tolgono col rischio di perdere l’idea originaria. Non è il caso di Vincenzo Pezzella, il quale in Poesie di transito 1994-1999 (Edizioni “Archivi del ‘900”, 1999) ha raccolto poesie scritte di getto, come si diceva una volta alle scuole d’infanzia, in brutta copia, senza rivisitazione. Un’altra “anomalia” è data dal fatto che le ha scritte su foglietti tipo biglietti da visita che si stampa personalmente nelle macchinette della sotterranea della metropolitana. Esse si alimentano del quotidiano, di una lingua metropolitana – ci fa notare l’autore – che si annida in ciascuno di noi, coltivano odori, percezioni, sentimenti, odio, violenze, speranze, rumori, indifferenze. Un tutto magmatico come la vita. Sono poesie non “infinite”, il risultato del mondo della vita comune frammentato dalla quotidianità delle città ingabbiate nella globalizzazione economica e culturale, risultato di un linguaggio non lontano dalle sperimentazioni avanguardistiche. Leggendo queste poesie facciamo la conoscenza di paesaggi multietnici di Roma Termini, di Napoli Piazza Garibaldi e della zona flegrea, delle Langhe e palermitane, di Milano, etc. Violenze organizzate e minorili che il poeta ha incontrato sulla sua strada vanno pari passo con i sogni dei giovani e i cancri delle periferie, «tra-ambulantiAfricani-con-carrozzini/ di- merce" milleliremangiareperfavore”-/ e-il-marevulcanico-dei-vicoli-le-lolite-sulle-/ funicolari-per- Posillipo- i-posteggimoto-i-soldi-/ e-le-puttane-in-P.zzaGaribaldi-su-scarpezattere/ in-top-esorrisi…». Chi avrà la meglio in questa babele? È una domanda che il poeta lascia senza risposta, come giusto che sia. Ha percorso chilometri e chilometri per la Penisola Pezzella, tra sogni e realtà, tra fughe e indolenza di un popolo che spesso dimentica di appartenere alla categoria del genere umano. Il tutto abilmente con una poesia stampata in una forma vicino alla poesia concreta, con diversi caratteri e corpo, che spesso fa ricorso a immagini fuori testo (un volto di donna, disegni, immagini di paesaggi, una macchina fotografica, l'uomo vitruviano di Leonardo, l’atomo) o chiede aiuto ai grandi poeti del passato (Byron, Merini, Pasolini, Dylan) per ricordarci che quando finisce un sogno bisogna pensare ad un altro, perché «Ognuno-va-incontro-al-suo-InFiNiTO». Vorrei cominciare questa intervista con una domanda, forse banale ma utile per i lettori: Chi è Vincenzo Pezzella? Me lo domando, a volte, anch’io: lo sto scoprendo a poco a poco, di certo un viaggiatore che continua una lontana antropologica migrazione, irrinunciabile. Le opere, ( pittura e scrittura ), i manufatti di questo viaggio cominciano dagli anni ’70. Sono tutte opere sconosciute che sto catalogando in circa 2000 immagini con il progetto di farne un libro, un altro viaggio, forse l'ultimo? Per chi vuole accedere a informazioni spicciole, mi può cercare nel pozzo di San Patrizio della rete. C’è molto riferimento a Napoli in queste poesie. Se dovesse fare un breve quadro della città… Il viaggio termina a Napoli narrativamente, là dove ha inizio la mia biografia per quello che ne so; è vissuta da me come un canzoniere e come la Dublino per Joyce: contraddizioni e visionarietà per ritornare all’altra domanda. L’ho lasciata con lo stesso cuore “a poppa” con lo stesso bisogno di ignoto e visione dello “spleen”. Cosa ha voluto trasmetterci con queste poesie? Le PoesieDiTransito non sono solo un’opera poetica (so che è difficile comprenderne il senso) ma tant’è che è così; altri linguaggi ne sono intrisi, disegno, grafica, foto, video, performance, mappe. Cosa hanno trasmesso a me che mi considero il portatore di un’energia, di un magnetismo preesistente; direi uno stato di conoscenza non sempre razionalizzabile, certamente l’essere in“ascolto” di un viaggio umano a cui non posso sottrarmi. Poesie nate nel 1999, con atmosfere e situazioni, dunque, “vecchie” di 20 anni. Cosa è mutato, secondo lei, nell’ambiente poetico? All’ambiente poetico come all’ambiente dell’arte non sono interessato, li trovo alienati e poco critici. Sono interessato al linguaggio. Semplifico, pur interpretandone un contenuto: quest’opera poestica testimonia il confine e anticipazione della liquidità della lingua contemporanea della sua contaminazione digitale; credo che la poesia in quanto lingua debba contaminarsi con il suo presente storico, non a caso Dante, Petrarca, Leopardi, scrivono in un’altra lingua che noi oggi non parliamo più, la leggiamo ma non la parliamo. La poesia oggi sembra destinata all’oblio. Come se ne esce? Al contrario, direi che è un ingorgo di citazioni, una “parolaterapia” sempre più diffusa; ma se manca la vita non si esce dall’alienazioni e resta solo la “citazione della poesia” perché non c’è storia. Facendo nostra una sua espressione, esiste una poesia metropolitana contemporanea che riflette sull’esperienza della strada, on the road, alla Jack Kerouac, secondo coscienza? Per quello che ne so quando la scrivevo venti anni fa era la sola con queste caratteristiche estreme di modalità performative; e va detto che non solo gli americani mi sono stati compagni nel viaggio, anche Baudelaire, Rimbaud, Campana, tra i primi visionari delle “metropoli”. Secondo lei, e concludiamo, la poesia deve essere contraddizione o visionarietà del poeta? Entrambi gli stati; non si dà l’uno senza l’altro. Credo che la poesia sia sempre radicata in un momento storico-umano e che nello stesso tempo tenda a una visione “utopica” in senso positivo, a una percezione di assoluto come per la fisica. CinquecolonneMagazine 12/03/2018 DEDALUS di TERZA GENERAZIONE Sono Dedalus di terza generazione, seguo a J. Joyce e U. Eco. Questo secondo battesimo non l’ho cercato come non ho cercato il primo. Il viaggio di formazione si. Da questo ignoto sono posseduto come lo sono stati i miei due predecessori, salvando del mito la radice del cercatore che va verso la luce. Di questo recente passato ho riconosciuto a J. l’influenza che ha avuto su di me il suo giovane antieroe Stephan Dedalus nella condotta di un processo formativo attraverso l’opera del racconto della sua vita tra i Gesuiti. L’archivio dei documentari di poesia e lo studio Dedalus sono stati il mio omaggio allo scrittore irlandese. Ho ricavato da un autoritratto fotografico un disegno da ex libris divenuto logo dei miei libri d’artista e ora mia icona poetica e grafica. Le mie esperienze di documentarista hanno avuto tra i diversi padrini anche il dublinese in quanto pioniere del cinema nella sua città già dal novecento. Per U. Eco le ragioni sono più o meno quelle colte della sua biografia di studioso dei linguaggi e i loro incroci. E credo che l’intenzione di rendere omaggio, nei suoi anni di formazione, al padre dell’Ulysse sia evidente. Le sue prime comparse in cui si è dichiarato con il nome Dedalus risalgono al 1958. Il titolo è “Filosofia in versi”. Il sottotitolo: “Le divertenti strofe di Dedalus illustrano con precisione i maggiori sistemi filosofici”. La pagina è corredata da quattro riproduzioni di altrettante vignette prese dal testo; edizione Taylor, Torino. È un giovane filosofo che scrive il testo mentre svolge il servizio militare e vuole conservare l'anonimato, a tratti ritenuto finanche quello di una donna. È sorprendente come la prima esperienza editoriale di Eco sia così simile alle edizioni di Alberto Casiraghi, non tanto per l’aspetto del manufatto quanto allo spirito ironico che vi è versato e la pari attenzione al contenuto storico del messaggio quanto alla scelta del modello di divulgazione. Segno che lo scrittore agli esordi avesse una umile, seppur sapiente, condotta verso l’esperienza della pubblicazione. Mostrando così, di far dialogare, fin dalle sue prime prove d’autore, la cultura classica con i nascenti segni della cultura di massa, quasi un’anticipazione della ricerca che condurrà per tutta la vita e ne distinguerà la cifra di pensatore. Per cui, a parte la passione più volte manifestata per l’opera di Joyce, non è certamente un caso che Umberto Eco abbia scelto come suo pseudonimo d’esordio il nome di Dedalus, che è un giovane ostinato e caparbio. Ciò che più colpisce nel suo credo è l’affermazione della libertà di pensiero, uno dei temi centrali nell’agire intellettuale. U. Eco non è un autore che ho seguito da vicino neanche nei suoi momenti di gloria letteraria ma come sempre nella vita creativa le strade sotterranee poi trovano un loro momento d’incrocio inaspettato. E colgo, con questa dedica a una collana l’opportunità di ringraziarlo per la curiosità e i nuovi strumenti di analisi che ci ha trasmesso con la sua “aperta” opera. La mia iscrizione a una genealogia di Dedalus sta nella condotta di quei cercatori, spinti sia dalla metafora del labirinto quanto quello del suo vincerlo con le ali della coscienza critica e della luce. Vincenzo Pezzella Dedalus
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